L’amico Francesco Venanzzi, manager ENI ( uno dei “ragazzi di Mattei”) e ex VP della Lanerossi, ci scrive. Lo ringraziamo per il prezioso contributo. Affronta nell’articolo che segue, il tema ormai ricorrente della “nazionalizzazione ” delle fondazioni bancarie e teme, non senza ragione, che grandi gruppi – magari stranieri- facciano incetta delle azioni stravolgendo il mercato delle banche italiane.
Beh, tranquilli, è già successo. Esistono già grandissimi gruppi bancari che non rispondono al territorio, non rispondono agli azionisti che in maniera infinitesimale, si autoperpetuano per cooptazione e fanno beneficenza a famiglie bisognose: le loro.
Il progetto di “nazionalizzazione” va strutturato per intero e si vedrà che , nel rispetto delle leggi, si può fare ( risposta a obiezione di incostituzionalità di Gic) e non vi sarebbero pericoli di speculazioni di mega gruppi stranieri: se le fondazioni sono pubbliche – cioè di tutti – lo Stato venda le azioni bancarie in loro possesso come dividendo di cittadinanza a nuclei familiari in regola con le tasse ( quindi abitanti in Italia) che si impegnino a non vendere ad altri per x anni. Quando i cittadini si accorgeranno che le azioni rendono, perché rendono, vedrete che si creerà il mercato delle azioni , con benefici anche sulla borsa valori.
L’assegnazione delle azioni bancarie alle famiglie sarebbe un premio a chi le costituisce ( le famiglie) e metterebbe in fuori gioco i grandi trust, i fondi pensione ecc. In una parola tutti gli speculatori che stanno trasformando questo inizio di secolo in un incubo. La parola a Francesco Venanzi:
Le fondazioni bancarie sono nate 20 anni fa come espediente tecnico per privatizzare le banche pubbliche e le Casse di Risparmio.
Si sarebbe potuta seguire un’altra via, come fu fatto per l’Eni e l’Enel. Trasformare per legge le banche pubbliche e le casse di risparmio in società per azioni, con attribuzione dei titoli azionari al ministero del Tesoro, che avrebbe provveduto con gradualità a mettere poi sul mercato le azioni.
La diversa strada seguita ha voluto conservare in qualche modo il ruolo che le Casse di risparmio avevano sul territorio, come enti che nell’esercitare il credito avevano una attenzione particolare verso le esigenze del territorio e che destinassero i profitti provenienti da tale attività ad attività di beneficienza e culturali.
Di chi erano le Casse di risparmio? Di nessuno. Nessuno poteva dirsi proprietario di una qualsiasi quota del patrimonio delle Casse, che non era appunto suddiviso in azioni o quote. Erano nate e cresciute con conferimenti , donazioni, autofinanziamento. Ma le comunità locali consideravano le Casse come loro patrimonio: nominavano gli amministratori, godevano dei servizi del credito in qualche modo indirizzandoli a beneficio degli interessi locali, godevano della beneficienza e del finanziamento di iniziative culturali.
Con la legge “Amato” del 1990 ogni Cassa di risparmio costituì una società per azioni con oggetto l’attività bancaria e gli conferì tutta l’attività ed i mezzi per il suo esercizio, restando proprietaria del pacchetto azionario della spa e degli altri beni ed attività estranei alla attività bancaria, non conferiti. Questa entità è la Fondazione bancaria conferente quella Cassa di risparmio. La fondazione non deve esercitare attività bancarie; i proventi provenienti dai dividendi della spa e dai profitti e rendite del restante patrimonio, devono essere destinati a beneficienza e al finanziamento di iniziative culturali e di ricerca.
Il legislatore è intervenuto più volte per definire la natura giuridica delle Fondazioni bancarie e per precisare gli ambiti di destinazione delle loro risorse. Ora le Fondazioni devono scegliere ogni tre anni cinque ambiti di destinazione delle risorse, tra quelli elencati dalla legge. Con legge del 1999 le Fondazioni sono state qualificate “persone giuridiche private senza scopo di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale”. Coerentemente con questa qualificazione, è venuto meno l’obbligo di dismettere le partecipazioni nelle spa bancarie. E con sentenza della Corte costituzionale del 2003 si è stabilito che l’organo di indirizzo delle Fondazioni deve avere “una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti , pubblici e privati, espressivi delle realtà locali”, anziché – come voluto da una proposta del ministro Tremonti – una dipendenza diretta dell’organo di indirizzo dagli enti territoriali. La stessa sentenza negò al ministro del Tesoro il potere di indirizzo generale sulle fondazioni bancarie.
Di fatto , le Fondazioni bancarie non hanno cessato di occuparsi delle attività bancarie perché hanno un ruolo determinante nella nomina degli amministratore delle spa e nelle decisioni di fusione o incorporazione delle diverse spa, di loro competenza in quanto azionisti di controllo delle stesse. E nel contempo dispongono di cospicue risorse da destinare a iniziative culturali e beneficienza, di grande incidenza sulle realtà del territorio; risorse che sono al di fuori dei bilanci degli enti locali, sempre magri o in deficit. Sono quindi un centro di potere rilevante e i partiti sono in prima linea per nominare i loro emissari negli organi delle Fondazioni e , quindi, anche nei consigli di amministrazione delle spa bancarie.
Di chi sono le Fondazioni Bancarie? Di nessuno; come un tempo le Casse di risparmio. In che modo il Governo potrebbe intervenire per destinare il cospicuo patrimonio delle Fondazioni bancarie alla riduzione del debito pubblico, come vorrebbe De Martini?
Si potrebbe fare quello che non si fece nel 1990, cioè convertirle per legge in società per azioni e assegnare i pacchetti azionari al ministero del Tesoro, che poi gradualmente dismetterebbe, realizzando valori da imputare alla riduzione del debito pubblico. Sarebbe una operazione di privatizzazione a due livelli che comprenderebbe anzitutto i pacchetti azionari delle spa bancarie possedute ora dalle Fondazioni e poi tutti i beni e le altre attività non bancarie che sono ora nel patrimonio delle Fondazioni.
La vendita dei pacchetti azionari delle spa bancarie darebbe luogo ad una grande trasformazione delle attività bancarie in Italia con concentrazioni, acquisti da parte di gruppi esteri , che forse snaturerebbe l’attuale vocazione localistica delle ex Casse di risparmio. La vendita del restante patrimonio delle Fondazioni, costituito anche da palazzi storici, collezioni d’arte, aziende agricole (?) potrebbe richiedere tempi lunghi e porre problemi in relazione a probabili vincoli. Con la scomparsa delle Fondazioni , munifiche protagoniste di beneficienze, sponsorizzazioni, sostegni a iniziative culturali di interesse locale, si solleverebbe una violenta opposizione delle comunità locali e la richiesta di supplire in altro modo a quelle munifiche attività.
FV
6/1/2011